sabato 28 febbraio 2009

L’aquaphile
Da Chronique de la haine ordinaire, Pierre Desproges

Ero letteralmente pazzo di quella donna.
Per lei, per lo spelndore divertito dei suoi occhi umidi di acuta intelligenza, per la sua voce rotta, greve e bassa, appagata di lussuria, per il suo sedere furibondo, per la sua cultura, per la sua tenerezza e per le sue mani, io mi sentivo un folgorante giovincello, pronto a sollevare impossibili massi per intagliarvi delle cattedrali in cui sarei entrato con i miei stivali a cavallo di un irresistibile sauro, pazzo, anche lui.
Per lei, nelle sere di usura casalinga in cui la routine appesantisce gli slanci familiari, erodendo fino al cuore i desideri coniugali, io mi vedevo con spavento abbandonare la madre dei miei figli, i miei figli stessi, il mio gatto primordiale e addirittura la mia cantina dalla volta umida e pallida, che odora di legno vecchio, di sughero e di sarmenti spezzati, la mia cantina indispensabile e segreta, dove parlo al mio vino quando la mia testa è sofferente, la mia cantina che non rischiaro che alla luce di una candela per il timoroso rispetto delle tradizioni perdute e della vita che scorre nei mille flaconi dai magici nomi di castelli occitani e di casate burgunde.
Per questa donna, dalla commovente quarantina che tre piccole rughe graffiano appena, tre paillettes intorno ai suoi sorrisi ancora da ragazzina, per questo frutto dal cuore maturo me non ancora caduto, per il suo nido vittoriano e per il divano nero su cui comprendevamo Dio ascoltando Mozart, per il velluto Guerlain intorno alla sua pelle, per la calma fermezza della sua camminata Dior di seta nera, per la sua virilità nel modo di tenere una Gauloise e per i suoi seni arroganti, sempre in piedi, anche nel più pericoloso degli inchini meno confessabili, per questa donna infinitamente inabituale, io mi sentivo sul punto di rinnegare le mie pantofole.
Vi dico che era infinitamente inabituale.
Per esempio mi parlava spesso in latino, per reazione feroce alla trascuratezza della lingua di casa nostra, che l’anglomania scortica a morte. I nostri dialoghi erano folli:
- quo vadis domine?
- Etoilla matelus?
In sua presenza non era raro ch’io gozzovigliassi, così, senza finezza, nella vaga speranza di nascondere sotto il mio naso rosso il turbamento profondo di essere con lei.
Lei aveva spesso la bontà di riderne, esibendo all’improvviso i suoi brillanti canini in un lampo bianco sovracuto che mi mordeva il cuore.
Ne ero pazzo, vi dico.
Quel 16 ottobre quindi, la portai a pranzare nell’antro bordolese di un truculento salsiere che non serve che sei tavoli in fondo ad un’impasse addormentata del XVe, dove ho le mie abitudini. Ci rivedo, mentre degustavamo dei delicati boleti neri, celebrando l’autunno, romantici e gravi, d’una gravità di amanti crepuscolari. Lei mi guardava, pallida e serena come quella bambina scandinava che avevo intravisto assorta sulla tomba di Stravinski in un mattino freddo di Venezia.
Ero sul punto di dire cose all’acqua di rose quando arrivò il sommelier.
Avevo ordinato un Figeac 71, il mio Saint-Emilion preferito. Introvabile, sublime. Rosso e dorato come pochi tramonti sanno essere. Profondo come un la minore di contabbasso. Splendente come un orgasmo al sole. Più lungo in bocca di un finale di Verdi. Un vino così grande che Dio esiste alla sua sola vista.
Lei ci ha messo dentro dell’acqua. Non l’ho mai più amata.

Da Chronique de la haine ordinaire, Pierre Desproges
Liberamente tradotto da Sabina